Rialzarsi subito dalle sconfitte e ripartire: questa è la tendenza dominante del mondo del lavoro che ha inevitabilmente influenzato la vita quotidiana moderna.
La spinta primaria è quella di resistere agli insuccessi, ai momenti no, alle difficoltà e rialzarsi il più velocemente possibile: “ricomincia subito a correre”, che tu sia leone o gazzella muoviti in fretta ancora del tuo trauma vestito, ancora con la tua bella e vivida ferita aperta.
Questo “inno” moderno alla resilienza, se funziona per le piccole sbucciature, risulta controproducente, oltre che altamente dannoso, per le cadute più grandi e profonde.
In molti casi è una forma subdola e inconsapevole di pronto rimedio che finisce per essere, essa stessa una patologia. Spesso ci si trova a procedere senza più avere pezzi integri e sani proprio in nome di questo patto, sottoscritto più che con noi stessi con gli altri. Spesso a guidarci è l’idea di dimostrare atti di forza verso l’esterno senza prendersi cura della nostra dilagante debolezza interna.
Prima di non essere più in grado di reagire nel vano tentativo di affermare un ideale eroico di sé stessi dalle gambe fragili è opportuno, se non misericordioso, prendersi del tempo per fermarsi, rompersi, rovinare al suolo e proprio lì quasi compiacersi nel soffrire integralmente. In quel momento concedersi la bellezza di scomporsi, di perdere completamente la tanto aspirata integrità.
Ascoltare il proprio dolore, comprenderlo e dargli un senso sono le fondamenta della ricostruzione.
Provare ad abbandonare i propri pensieri guida è poi l’inizio della rinascita. Pensieri prima ottimi ma adesso disfunzionali, come: “so fare tesoro di ogni sconfitta”, “so prendere il meglio di ogni situazione”
Noi, soldatini straordinari in grado di sopportare, adeguarsi e rinvigorirsi nonostante tutto, non dovremmo perdere la bellezza e l’importanza di perderci, di allontanarci senza scappare, di renderci materia informe, decomposta. Potremmo perdere la testa per poi farne rinascere due come il mostro Idra, e non accontentarci di averne una logora e attaccata con lo skotch.
Se ogni tanto ci concedessimo il lusso di farci qualche giorno nella nostra Sant’ Elena o a Robben Island, se provassimo a essere senza remore “a pezzi” e dichiararlo, se potessimo sentirci liberamente “una merda” e raccontarcelo, potremmo essere noi stessi il nostro concime migliore.