Nel suo libro Daring Greatly, Brené Brown ha scritto di sei miti che circondano il concetto di vulnerabilità e rendono difficile apprezzarne l’importanza.
Mito n. 1: la vulnerabilità è debolezza.
‘Ho chiesto a piloti di caccia e ingegneri del software, insegnanti e contabili, agenti e amministratori delegati della CIA, clero e atleti professionisti, artisti e attivisti, e nessuna persona è stata in grado di darmi un esempio di coraggio senza vulnerabilità’. Dice Brown. ‘Il mito della debolezza semplicemente si sgretola sotto il peso dei dati e delle esperienze di coraggio vissute dalle persone’.
Mito n. 2: non mi occupo di vulnerabilità.
La nostra vita quotidiana è definita da esperienze di incertezza, rischio ed esposizione emotiva. Fingere di non essere vulnerabili significa lasciare che la paura guidi il nostro pensiero e il nostro comportamento. Scegliere di possedere la nostra vulnerabilità e farlo consapevolmente significa familiarizzare con questa emozione e capire come essa guida il nostro pensiero e azione.
Mito n. 3: posso farcela da solo.
Oppure, detto in un altro modo: ‘Non ho bisogno di essere vulnerabile perché non ho bisogno di nessuno‘. Il ricercatore di neuroscienze John Cacioppo ha dedicato la sua carriera alla comprensione della solitudine, dell’appartenenza e della connessione ed è arrivato a sostenere che non traiamo forza dal nostro individualismo, ma piuttosto ‘dalla nostra capacità collettiva di pianificare, comunicare e lavorare insieme’. Che lo sappiamo o no, il nostro cervello e la nostra biologia sono stati modellati per sostenere l’interdipendenza piuttosto che l’indipendenza.
Mito n. 4: si può ingegnerizzare un modo per gestire il disagio dalla vulnerabilità.
Qualcuno suggerisce che dovremmo rendere più facile la gestione della vulnerabilità progettando un’app e/o un algoritmo che preveda quando è sicuro poter essere vulnerabili con qualcuno. Questo tentativo di ingegnerizzare la vulnerabilità e l’incertezza dei sistemi e mitigare il rischio è piuttosto diffuso. Tuttavia, Brown sta parlando di vulnerabilità relazionale, non di vulnerabilità sistemica. ‘Indipendentemente da ciò che fai e da dove lavori, sei chiamato ad essere coraggioso nella vulnerabilità anche se il tuo lavoro è progettare la vulnerabilità fuori dai sistemi’.
Mito n. 5: la fiducia viene prima della vulnerabilità.
Parlando di relazioni emerge sempre prima o poi il dibattito sulla fiducia e la vulnerabilità. ‘Dobbiamo avere fiducia per essere vulnerabili e dobbiamo essere vulnerabili per costruire fiducia’. A fronte di una ricerca basata su quarant’anni di studio sulle relazioni intime, John Gottman è stato in grado di prevedere l’esito del divorzio con un’accuratezza del 90% sulla base delle risposte a una serie di domande. Gottman afferma che la fiducia si costruisce in momenti molto piccoli, che chiama momenti sliding doors. ‘In qualsiasi interazione, c’è la possibilità di connettersi con il tuo partner o allontanarti da esso. La fiducia si crea con la sovrapposizione di piccoli momenti e reciproca vulnerabilità nel tempo. Fiducia e vulnerabilità crescono insieme, e tradirne una significa distruggere entrambe’.
Mito n. 6: la vulnerabilità è divulgazione.
Brown non è un sostenitrice della condivisione senza limiti delle cose che appartengono alla sfera personale, della cessione di informazioni sensibili come strumento di leadership o tanto meno della vulnerabilità fine a se stessa.
Uno studio quinquennale effettuato da Google sui suoi team ad alte prestazioni il Progetto Aristotele, ha scoperto che fra i membri dei team la sicurezza di correre rischi ed essere vulnerabili l’uno di fronte all’altro era ‘di gran lunga la più importante delle cinque dinamiche che distinguono i team di successo’. La professoressa della Harvard Business School Amy Edmondson definisce questo fattore come ‘sicurezza psicologica’. La vulnerabilità ne è il fattore fondamentale.
Adattamento da Brené Brown, Dare to Lead, Random House